"Se hai due pani,
danne uno ai poveri,
vendi l'altro
e compra dei giacinti
per nutrire l'anima"
(massima indu')

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Graziella Giovannini

Materiali online

I molti tempi, luoghi, attori della formazione: un’analisi del policentrismo a partire dall’offerta

Febbraio 26th, 2010

In Morgagni E. e Russo A. (a cura di), L’educazione in Sociologia: testi scelti, CLUEB, Bologna 1997

Socializzazione e apprendimento hanno sempre coinvolto, almeno all’interno delle società caratterizzate dalla differenziazione sociale, una pluralità di contesti e di attori. Il policentrismo formativo, di cui si parla attualmente con insistenza, si presenta tuttavia con modalità peculiari che non solo mettono in discussione gerarchie tradizionali, ma richiedono una più attenta riflessione sugli aspetti della comunicazione. Pur non trattandosi ancora di processi compiuti e chiaramente e stabilmente delineabili, numerosi indicatori ci aiutano ad individuare il modello emergente e costituiscono lo stimolo per una rinnovata riflessione teorica.

Il saggio è rivolto a cogliere i fermenti nuovi dal punto di vista dell’offerta formativa e con specifico riferimento alla realtà italiana, nella consapevolezza che il cambiamento è ancora più forte nei soggetti e nella domanda, ma nella convinzione che i dati strutturali, anche se meno flessibili, conservano tuttavia una forza ed un significato innegabili.

Una rapida riflessione temporale, rivolta ad individuare le “usate riduzioni” con cui si sono studiati i fenomeni formativi, ci serve all’inizio non per rileggere ed interpretare ogni cosa, considerando diffusa la conoscenza del passato, né per spiegare l’oggi come semplice frutto evolutivo di ieri, ma per recuperare come scenario all’analisi la pazienza collinsiana nella definizione dei fatti naturali come fenomeni a lenta affermazione e per ricordare (con speranza) che anche i modelli dominanti si rompono e che pur sempre i modelli dominanti sono costretti a convivere con altre tendenze, con la devianza, con orientamenti diversi, con le opposizioni.

1. Le usate riduzioni

Il “monopolio” della scuola nell’ambito delle agenzie formative, assunto fino agli anni Settanta come principale prospettiva di analisi e di intervento, in realtà ha riassunto in sé:

– tendenze fenomeniche empiricamente verificabili;
– progetti e rivendicazioni sociali;
– riduzionismo di analisi nelle scienze sociali.

L’individuazione della scienza come strumento di progresso sociale ed economico, della razionalità come metro di conoscenza e della democrazia come criterio di organizzazione societaria hanno promosso, nel corso di quasi due secoli, quel modello di istituzionalizzazione della trasmissione culturale che ha trovato nella scuola un’agenzia privilegiata, largamente definibile e quindi controllabile, di formazione delle nuove generazioni sia alle abilità socio politiche che a quelle tecnicocognitive. In relazione alla crescente differenziazione sociale, la scuola è stata assunta come agenzia specialistica, intenzionalmente rivolta alla formazione delle nuove generazioni, obbligatoria per i più giovani, luogo della trasmissione di un sapere riflesso, accumulabile e gerarchizzato, teso prioritariamente alla costruzione del cittadino e del lavoratore.

Sulla scuola si sono concentrate volontà di dominio e attese di liberazione; lo sviluppo della scuola è stato usato come metro di valutazione del livello di evoluzione degli stati nazionali. Lo “scuolacentrismo” lo si ritrova nella definizione di priorità nelle politiche sociali e, all’opposto, nelle rivendicazioni delle classi subalterne. Va tuttavia ricordato che in alcuni contesti e per alcuni movimenti, in particolare di matrice cattolica, la progettazione formativa ha sempre continuato a sottolineare l’importanza, quando non la priorità, della famiglia nella costruzione della personalità, ruotando piuttosto attorno ad un modello a due poli— famiglia e scuola—mentre non sono mancati, fin dal secolo scorso, modelli pedagogici che allargavano il territorio formativo a tutto l’ambiente circostante la scuola.

In ambito di analisi, la sociologia, fin dagli inizi, ha fatto propria una riduzione metodologica dell’educazione a trasmissione socio culturale all’interno di un’istituzione definita, contribuendo a sua volta alla costruzione del modello scuolacentrico. Tuttavia, lo stesso approccio parsonsiano, che pure individua nella scuola la sede di formazione più importante per la società moderna, può essere in qualche misura definito un approccio policentrico: famiglia, scuola, gruppo dei pari entrano e devono entrare in relazione coerente per realizzare un adeguato processo di socializzazione che accompagni il nuovo nato fino alla soglia della maggiore età, luogo della maturità raggiunta e quindi della non socializzazione.

Se il territorio di analisi è molto frastagliato e fluttuante sia storicamente che rispetto alle appartenenze ideologiche, si può sostenere che a conclusione di un lungo itinerario politico culturale, alla fine degli anni Sessanta, a livello di progetto e di teoria sociale e, con minor forza ma con buona significatività, anche a livello empirico, la centralità della scuola nella formazione delle nuove generazioni non rappresenta solo uno scenario, una tendenza, ma un modello forte, capace di orientare le azioni e le rappresentazioni sociali.

Se è vero che la socializzazione ha continuato a passare attraverso una pluralità di contesti, è altrettanto vero che si è venuta definendo progressivamente una organizzazione gerarchica imperniata sulla scuola proprio per la rilevanza dei fini sociali ad essa demandati. La gerarchizzazione del sistema formativo ha comportato la dominanza del tipo di sapere trasmesso dalla scuola, la subordinazione, se non la svalutazione totale, degli altri tipi di apprendimento, la deresponsabilizzazione di tutti i soggetti che non fossero gli specialisti dell’educazione e il disconoscimento delle valenze formative degli altri contesti di socializzazione, in particolare quando, come nelle famiglie e negli ambienti proletari e marginali, non esisteva corrispondenza con la cultura scolastica.

Più in generale, il modello di sistema formativo centrato su un’agenzia specialistica organizzata separatamente su leggi proprie, perlopiù sotto il controllo dello stato, dispensatrice di titoli di studio legalmente validi per l’inserimento occupazionale, ha portato con sé una riduzione dei fini dell’educazione a quelli strumentali, con conseguente castrazione delle componenti onnilaterali della personalità. Questo modello, estremamente potente in relazione agli obiettivi di una società che vuole essere industriale, laica e democratica è anche fortemente rigido e richiede perfette regole di funzionamento, soprattutto perfette regole di coerenza fra la scuola ed i diversi contesti formativi su di essa verticalizzati e tra la scuola e destinatari del suo output, in particolare il mondo produttivo. Dal punto di vista dell’offerta agli utenti, comporta una rigida definizione degli itinerari formativi, strutturati sulla massima continuità iniziale della scolarizzazione e su una netta spaccatura tra periodo formativo e periodo lavorativo.

L’organizzazione curricolare degli studi si presenta a maglie definite, con scarsi margini di flessibilità: è essa stessa organizzazione gerarchica di un sapere graduato, accumulabile e progressivamente specialistico per suddivisione.

Alla graduazione della struttura curricolare e dell’organizzazione della conoscenza deve corrispondere lo sviluppo equilibrato del soggetto che può esercitare la propria libertà di scelta solo in alcuni momenti definiti e limitati.

In questa riconosciuta e auspicata subordinazione dell’individuo all’ambiente si può parlare di una flessibilità per adattamento, quando non di una flessibilità perversa, che vede l’individuo non solo limitato nella sua capacità di intervenire nella definizione dei fini sociali, ma totalmente caricato delle conseguenze negative di scelte differenti rispetto agli itinerari formativi prestabiliti. Si pensi alle uscite precoci dalla scuola, agli abbandoni a itinerario non concluso, che si traducono in un’emarginazione sociale attribuita alla responsabilità del singolo o della sua famiglia, incapace di dotarlo del capitale culturale adeguato. Un’ulteriore riduzione collegata al modello scuolacentrico riguarda la rappresentazione dell’educazione come fatto di giovani e per giovani, con conseguente isolamento generazionale e un’equazione precisa fra formazione e immaturità5.

2. Ciò di cui si parla oggi

Il modello formativo a dominanza scolastica sotto il controllo dello stato, in realtà, è stato messo in discussione negli anni Settanta prima ancora del suo completamento empirico, e sostituito con gli anni Ottanta—nei paesi occidentali e in particolare in Italia—dall’immagine del policentrismo formativo, che si è venuta costruendo sulla base di una pluralità di teorie e di fenomeni ruotanti attorno ai temi della flessibilità, della caduta di gerarchie e centralità. I motivi sono di diversa natura e diverse possono essere le matrici interpretative. A livello culturale, un contributo decisivo allo smantellamento del modello scuolacentrico è sicuramente venuto dalle analisi dei descolarizzatori che, pur prive di seguito a livello di immediate realizzazioni e progettazioni, hanno rotto una rappresentazione consolidatasi in due secoli e più di vita. In qualche modo le utopie descolarizzatrici hanno mandato in frantumi schemi mentali di senso comune, equazioni ormai indiscusse e, in primo luogo, l’equivalenza educazione=istruzione=scuola=rapporto educatori professionisti/giovani.

In termini di relazione e non di deterministica causalità, va poi sottolineato il collegamento tra l’affermarsi di una immagine deverticalizzata di sistema formativo, in cui trovano posto i molti luoghi, tempi, soggetti dei processi educativi, e l’emergere complessivo di un modello flessibile di società, con obiettivi e processi mutevoli, un ampliamento delle alternative di vita, la difficoltà di individuare un centro normativo e valoriale in grado di sostenere una compatta integrazione sociale e la conseguente (per amore o per forza) valorizzazione delle capacità individuali di scelta.

Nel recente dibattito sociologico, pedagogico e di politica sociale sono emerse in Italia varie definizioni del nuovo scenario formativo, che sono segnaletiche di diverse concezioni delle relazioni esistenti e da porre in essere tra i diversi poli del processo di socializzazione e che rimandano anche, in qualche misura, ad una diversa interpretazione dei mutamenti in corso.

Si è parlato così di sistema formativo allargato, per indicare fenomenicamente un’espansione dell’offerta di opportunità formative al di là della scuola, criticata soprattutto in termini di inefficienza e di scarsa qualità dei contenuti. Si tratta di una crescita disorganica di occasioni formative che trovano nel vuoto della scuola, soprattutto di quella pubblica, la loro ragion d’essere e che proprio in alternativa alla scuola, per fini che non mutano sostanzialmente, costituiscono oggetto di domanda da parte dell’utenza. L’ampliamento delle sedi di formazione, occasioni formative, animate dalle regole della libera concorrenza, mentre la definizione delle relazioni si sposta tutta dalla parte del soggetto che, estremamente flessibile, ma anche estremamente bisognoso di essere informato sulle varie opportunità, costruisce il proprio curricolo formativo fatto di pubblico e di privato, di istituzionale e non, di scolastico e di lavorativo. In età evolutiva, nella fascia dell’obbligo, è la famiglia a diventare soggetto di costruzione per il minore, caricata prevalentemente di compiti di servizio, ma di nuovo più potente nelle sue responsabilità di scelta tra le diverse opportunità formative.

Una seconda definizione, prevalsa nel dibattito pedagogico e di politica scolastica con orientamento normativo, è quella di sistema formativo integrato, che parte dalla constatazione dell’importanza di una pluralità di esperienze per la socializzazione, con prevalente attenzione ai temi dello sviluppo cognitivo e socio relazionale, per richiedere un forte coordinamento tra le diverse agenzie su base locale. La relazione di dominanza della scuola non scompare del tutto, anche se si attenua, attraverso la diffusione delle responsabilità formative ad una ricchezza di offerte, pubbliche e private o di privato sociale, perlopiù formalizzate e rese intenzionalmente formative, a livello territoriale.

Nell’esigenza di coerenza tra le diverse sedi, si ipotizza l’integrazione costruita sul coordinamento tra la scuola e le altre occasioni, perlopiù fondato sulla programmazione partecipata degli enti locali. La scuola diventa una sorta di polo “attraente”, con cui le altre realtà devono comunque rapportarsi.

Anche in questa definizione non si ha una nuova differenziazione di fini tra vecchi e nuovi contesti, anche se indiscutibilmente si finisce per accentuare come specifico della scuola lo sviluppo scientifico cognitivo, riducendo le altre molteplici (forse eccessive) finalità che negli anni si erano venute accumulando sulla istituzione scolastica. La flessibilità del modello si traduce in un aumento delle alternative offerte al singolo a partire ancora una volta dal sociale, sia pure un sociale molto articolato e non del tutto colonizzato dal sistema politico amministrativo, mentre la flessibilità del soggetto, sicuramente molto accentuata e valorizzata, scorre pur sempre tra linee guida già molto organizzate, istituzionalizzate.

Coincide sostanzialmente con l’immagine di sistema formativo integrato il ricorso al termine di scuola parallela, che vuole soprattutto mettere in evidenza l’esigenza di una “intenzionalità” precisa e programmata delle occasioni formative che si devono affiancare alla scuola e molti punti in comune con la stessa si ritrovano nella definizione di ecosistema formativo, interpretato come insieme di istituzioni e agenzie “consapevoli della loro responsabilità”, in interscambio equilibrato, da attivare all’interno di delimitati territori 10.

Noi preferiamo parlare di processi formativi policentrici, in chiave analitico empirica e non normativa, per evidenziare l’esistenza (non ancora sistemica) di percorsi di socializzazione pluralistici sia nei contenuti che nella forma e nelle finalità, in presenza di un’elevata flessibilità macrosociale e soggettiva, come norma ma anche come progetto. Non si tratta di un semplice arricchimento delle opportunità a fianco della scuola, in quanto i singoli contesti hanno vita relativamente o totalmente autonoma rispetto all’istituzione scuola, se non altro in termini di media comunicativi e di organizzazione della conoscenza. L’ottica non è quella dell’immissione di regole di mercato per migliorare l’efficienza, ma piuttosto quella della riscoperta di potenzialità diffuse per fini che non sono solo strumentali.

La rappresentazione di una realtà magmatica, non ancora segnata da nuove dominanze o integrazioni gerarchizzanti, implicita nella nostra definizione di policentrismo formativo, lascia aperti spazi teorici e pratici di uscita dalla transizione in termini non solo di adattamento per progressiva differenziazione macro sociale e soggettiva, ma anche di ridefinizione della relazione tra educazione e società in chiave non solo utilitaristico strumentale.

3. Le molteplici dimensioni del policentrismo

Si può parlare di policentrismo in relazione ai tempi della formazione: in questo caso viene in rilievo la transizione da una definizione di socializzazione come processo specifico della prima età della vita, ad un modello di educazione permanente, ricorrente, che in varie forme e modi interessa tutto l’arco dell’esistenza. Su questo aspetto trovano accordo studiosi e operatori di diversa matrice disciplinare, ideologica, territoriale, tanto da poter individuare nell’educazione permanente uno dei principi basilari che definiscono l’immagine attuale dei processi formativi, principi che pochi osano avversare apertamente.

La flessibilità temporale è immediatamente legata alla pluralità dei destinatari dei processi di socializzazione. Se l’educazione diventa progresso continuo e i soggetti sono chiamati a reinserirsi più volte nel sistema formativo, allora non esiste più un’età esclusiva per l’educazione, né si può definire come utente tipo il bambino o l’adolescente. Giovani, bambini, adulti, anziani sono tutti potenziali soggetti di azioni formative, con una probabile caduta della segregazione generazionale legata alla scuola tradizionale.

Un terzo aspetto del policentrismo è individuabile nella pluralità di gestori delle istituzioni formative: in questo caso Si fa riferimento prevalentemente all’attuale dibattito sul dilemma pubblico privato nella gestione della scuola e delle altre occasioni formative organizzate. La progressiva attrazione delle istituzioni socializzanti nel sistema politico amministrativo, nello stato delle società a capitalismo maturo, conosce una battuta d’arresto sia in nome di una proclamata (ma non dimostrata) maggiore efficienza del mercato sia, In particolare in Italia, per una richiesta di maggiori spazi e di maggiore libertà per le espressioni pluralistiche della società civile, sia, infine, per operare una dinamizzazione delle risorse diffuse nella società, mortificate e deresponsabilizzate da un’eccessiva invadenza statale.

In maniera più generalizzata, tuttavia, si usa il termine policentrismo per definire la pluralità delle sedi e delle occasioni di formazione, la crescita delle agenzie coinvolte nel processo di socializzazione, istituzionali e non, intenzionalmente finalizzate alla formazione o implicitamente educative, permanenti o temporanee, coercitive o ad adesione spontanea. Una delle innovazioni più significative è rappresentata dalla introduzione della mediazione tecnologica nella trasmissione della conoscenza, con una forte tematizzazione dei problemi della comunicazione e della organizzazione del sapere ad essa connessa.

A partire da tale individuazione dei diversi “poli” della flessibilità formativa, quanto in essa c’è di pura rappresentazione sociologica e di progettazione sociale e quanto già possiamo legare a fenomeni empiricamente verificabili? E ancora, quale scenario, o fascio di tendenze (empiriche, analitiche, progettuali) caratterizza ogni insieme di poli?

3.1. Destinatari e tempi della formazione

Nella realtà italiana è già empiricamente riscontrabile una crescente tendenza all’articolazione dell’offerta e dell’intervento formativo rispetto ai tempi o cicli di vita (e quindi rispetto ai relativi destinatari e utenti della formazione). Offerta e interventi non sono più concentrati unicamente nella fase iniziale (infantile adolescenziale giovanile) della vita, bensì sono dilatati a rispondere in modo differenziato e articolato ad una domanda di formazione discontinua, espressa in diverse situazioni di età e con diverse modalità di parallelismo e intreccio con varie situazioni e ruoli sociali (lavorativi, di tempo libero, di consumo, di quiescenza) Si pensi:

_ all’offerta di formazione in integrazione o alternanza con attività di lavoro specie nella fascia d’età immediatamente post obbligatoria;

_ alle varie tipologie (formali e non formali) di formazione degli adulti sviluppatesi negli ultimi quindici anni anche nel nostro paese;

– all’espansione della formazione sul lavoro di lavoratori e quadri già occupati (aggiornamento, qualificazione, riconversione professionale);

– alla recente espansione numerica delle esperienze associative ed istituzionali di formazione per la terza età, precedentemente sviluppatesi e consolidatesi all’estero;

– alla declinazione ed organizzazione in termini formativi dell’impegno dei movimenti ecologico naturalisti (corsi di educazione alimentare, corsi per consumatori, università verdi…) con il coinvolgimento di un pubblico plurigenerazionale.

Si tratta di realtà e tendenze nel campo dell’offerta formativa che, nonostante ritardi, contraddizioni, carenze di sostegno da parte delle politiche formative pubbliche e dei principali soggetti sociali organizzati, hanno ormai superato la soglia dell’innovazione e della sperimentazione, raggiungendo punti di non ritorno e imponendo in modo sufficientemente diffuso, a differenza degli anni Settanta e almeno nell’area degli addetti ai lavori, l’acquisizione di scelte e prospettive ispirate ad una cultura della formazione permanente e dell’integrazione o alternanza formazione lavoro.

Se poi andiamo al di là dell’offerta di corsi, più o meno istituzionalizzati, e prendiamo in considerazione quell’occasione domestica di socializzazione che è costituita dall’emittenza radio televisiva, si rompe qualsiasi rigido schema di organizzazione temporale e qualsiasi barriera per età che non sia quella della capacità di comprensione legata a fatti evolutivi. La televisione si presenta con tutte le caratteristiche di un megacontesto di educazione permanente, offerto in maniera indifferenziata a tutte le generazioni, anche se alcune specializzazioni per genere continuano ad avere come riferimento pubblici diversi per età (tipici i cartoni animati).

Così pure le nuove tecnologie informatiche possono rompere i vecchi schemi generazionali legati all’apprendimento, in quanto giovani e adulti si vengono a trovare nella stessa condizione di non conoscenza e di immaturità’ quando addirittura non si ribaltano i termini della relazione, con adulti che non sanno e giovani che sanno.

Gli “incroci” tra ruoli adulti e ruoli giovanili e, in specifico, la rottura delle equazioni giovane = studente, adulto = lavoratore, pongono grossi interrogativi sulla persistenza e sulla qualità delle differenze generazionali che proprio nella dicotomia tra esperienza di scuola ed esperienza di lavoro fondavano le loro radici strutturali più potenti. La relativa indifferenza rispetto all’età di alcuni aspetti della socializzazione, unita ad altri fenomeni che interessano i climi e le relazioni familiari, in genere Fu paritari rispetto al passato, richiede una nuova riflessione sulla transizione alla maturità, sugli itinerari attraverso i quali si supera (se si supera) l’adolescenza.

3.2. Policentrismo gestionale

Anche all’interno dell’organizzazione istituzionale e gestionale dei processi formativi e della progettazione politico culturale specifica è riscontrabile l’emergere di tendenze e termini nuovi di dibattito che prefigurano, ci sembra, la transizione ad una pluralità di livelli territoriali e ad un policentrismo gestionale, con conseguenti problematiche di coordinamento integrazione.

Così, a livello nazionale, accanto al tradizionale ruolo del Ministero della Pubblica Istruzione, si evidenzia il crescente ruolo propositivo direzionale e gestionale del Ministero del Lavoro (apprendistato, contratto di formazione lavoro, formazione professionale legata a grandi ristrutturazioni riconversioni produttive …). A livello delle competenze regionali, sta pure con una configurazione a pelle di leopardo, si sono sviluppate politiche di formazione professionale, di diritto allo studio, di promozione culturale, di concorso alla qualificazione dei vari comparti del sistema formativo. Si pensi poi, soprattutto, all’impegno, ormai di lunga data, di molti enti locali nel campo dello sviluppo e della qualificazione delle varie risorse e opportunità scolastiche formative culturali che, in molti casi, hanno saputo costruire (nonostante limiti crescenti di risorse e sabotaggi centralistici) vere e proprie esperienze di programmazione formativa territoriale .

Emergono e si consolidano, in campo formativo come in altre aree dell’intervento sociale, una cultura riformatrice di un “pubblico” che finalmente non si identifica più con il modello statalistico centralisticog~acobino napoleonico di direzione e gestione della cosa pubblica, così come una cultura e progettualità del privato sociale non più identificata ed appiattita con gli aspetti ideologico corporativi parassitari clericali del pluralismo e con quelli neoliberalistici dell’introduzione generalizzata del mercato anche nella formazione.

Si delinea forse, tra contraddizioni e ambivalenze, un superamento dei tradizionali termini italiani della “querelle scolastica” tra laici e cattolici e quindi anche una tendenza al possibile superamento della specifica configurazione istituzionale del rapporto tra scuola statale e scuola privata. Questo perché le tradizionali culture e aggregazioni ideologico politiche in merito sembrano aprirsi reciprocamente alle istanze e preoccupazioni del campo avverso, ma anche perché stanno entrando in scena nuovi protagonisti (l’associazionismo laico di sinistra, quale corposa componente del tessuto privato sociale, le componenti imprenditoriali private e cooperative, la domanda sociale diffusa di efficienza, l’industria culturale con le sue strutture capaci ormai di un’articolata offerta formativa…). Soprattutto emerge come imprescindibile una domanda di crescita della qualità dell’educazione che richiede una diversa, coerente ed efficiente articolazione dei livelli decisionali e programmatori e una pluralità di sedi e soggetti gestionali. Da qui, sia un radicale ripensamento delle politiche nazionali di riforme difficili da varare, ma anche troppo onnicomprensive prescrittive centralistiche e quindi inefficaci, sia la necessità di una maggiore flessibilità e articolazione decisionale all’interno dell’intervento pubblico e di un riconoscimento, entro limiti definiti e qualificati, dei soggetti privati di offerta formativa. Analoghi termini riscontriamo, pur in assenza di una definizione istituzionale legislativa delle competenze, in merito alla problematica dell’emittenza radiofonica e televisiva e quindi anche della sua specifica offerta formativa. Già l’attuale situazione di polarizzazione (statale privato mercantile) dei soggetti di emittenza permette di evidenziare sostanziali differenziazioni nella produzione di programmi esplicitamente e implicitamente formativi e la persistenza di una sostanziale chiusura dell’accesso al tessuto dell’area privato sociale.

3.3. I luoghi della formazione

A livello di dati empirici, è indubbio che anche nella situazione italiana la scuola rappresenta pur sempre un luogo prioritario di formazione, se non altro a livello quantitativo e per le giovani generazioni. La progettata estensione dell’obbligo a sedici anni, la proposta ricorrente di un ulteriore elevamento a diciotto anni, la crescita dell’offerta di formazione a livelli elevati di qualificazione sono certamente indicatori di un’offerta che continua ad investire sulla scuola. Contemporaneamente però si è esaurita la spinta all’incremento delle sperimentazioni a tempo pieno, si sta riducendo il numero dei giorni di lezione e, soprattutto, si è interrotto quel processo di progressiva attribuzione alla scuola di fini relativi a tutte le possibili aree di socializzazione e prevenzione della devianza .

La famiglia, dopo anni di crisi, ha recuperato terreno sociale anche sul piano della socializzazione, tanto da far sollevare voci preoccupate di un’eccessiva dipendenza e non autonomizzazione, anche psicologica dei giovani. Orientamento, prevenzione della devianza, recupero di tossicodipendenti e malati di mente sono territorio riconosciuto di intervento familiare, assumendo le caratteristiche non di mero servizio ma di azione socializzatrice e risocializzatrice.

Il ricorso alle esperienze di lavoro con finalità formative è fenomeno ampiamente presente, sia pure in forma disorganica e con grosse variazioni sul territorio, nell’educazione delle giovani generazioni. Stages, borse di lavoro estivo, contratti di formazione lavoro, ripensamento dell’apprendistato sono da diversi anni realtà e obiettivo di intervento nelle politiche formative. La mobilità occupazionale, forzata o volontaria, costituisce un ulteriore terreno di alternanza scuola lavoro.

Al di fuori della scuola si espandono le occasioni formative, sotto forma di corsi strutturati aperti a tutte le generazioni in diversi campi del sapere e dell’espressività (con netta predominanza dell’area corporeo sportiva). Cicli teatrali, conferenze, mostre artistiche o scientifiche, musei di tutti i tipi nascono anche come offerte intenzionalmente formative, che portano spesso fin nei piccoli centri occasioni ieri reperibili solo nelle grosse città e per categorie elitarie di persone. La stessa offerta turistica tende sempre più a presentarsi sul mercato con obiettivi non di puro svago, ma di crescita culturale per i singoli e per le famiglie.

Nell’area infantile, non solo le ludoteche, servizi imperniati sull’offerta di giochi formativi, ma anche le ditte produttrici di giocattoli si presentano ai possibili utenti con modelli pedagogici e psicologici spesso estremamente precisi e tendenti a giustificare didatticamente ogni oggetto ludico (vedi linea “Chicco”).

Con riferimento specifico all’area giovanile, assieme alla crescita di alcune modalità associative, va registrata la creazione di servizi come i centri informativi, che svolgono compiti di orientamento non solo in ambito scolastico occupazionale, o i “centri giovani”, che hanno finalità prevalentemente aggregative, costituiscono luoghi di autonoma produzione giovanile, ma sono anche sedi di un’offerta formativa organizzata in molti settori dell’area espressivo corporea. Non ha bisogno di molte dimostrazioni l’espandersi della comunicazione televisiva, ormai vecchia tecnologia, prontamente accolta nelle case, interpretabile più come diffuso ambiente formativo che vera e propria agenzia intenzionale, ma con una produzione anche di materiali educativi, specialistici, costruiti ad hoc con fini di trasmissione delle conoscenze.

Meno estesa, ma pur sempre molto pervasiva per il livello di penetrazione in tutti i settori sociali ed economici, è la diffusione delle tecnologie informatiche, che non sono definibili oggi come centro formativo in sè e per sé, ma che manifestano tutta la loro importanza sia come media comunicativi molto potenti che come occasione di mutamento nell’organizzazione della struttura educativa.

È più difficile reperire indicatori per tutte quelle occasioni formative che sono temporanee, non hanno una struttura alle spalle, non sono Spesso neppure immediatamente registrate come educative: è l’area dell’informale, dello spontaneo, maggiormente evidenziabile con un’analisi che parta dalla domanda, dai soggetti, ma scarsamente inquadrabile (e forse è bene) dal punto di vista dell’offerta.

4. Stili comunicativi

Il problema non è evidentemente solo quello di delineare e delimitare l’area delle risorse educative, ma anche di analizzare contenuti e modalità dei processi di socializzazione. Di prioritaria importanza, proprio per la crescente attenzione ai processi formativi come processi di comunicazione sotto l’impatto della pervasiva mediazione tecnologica, è l’analisi delle differenze e delle corrispondenze tra gli stili comunicativi che caratterizzano ogni contesto esplicitamente o implicitamente educativo.

Anche senza stabilire una rigida dipendenza del pensiero dal tipo di linguaggio e, ancor più, dal medium comunicativo, si può tuttavia riconoscere che il linguaggio struttura la conoscenza organizzandola diversamente in base agli elementi che lo caratterizzano. Sono numerosi gli studi, di nuova data o di recente ripubblicazione, che pongono in relazione medium comunicativo e sviluppo della conoscenza e, in campo formativo, contesti comunicativi della socializzazione e caratteristiche dello sviluppo sia cognitivo che socio emotivo.

Transitando dalla famiglia, al gruppo amicale, alla scuola, alla TV, al computer, si passa dai luoghi specifici della comunicazione interpersonale verbale, faccia a faccia, fortemente contestualizzata e arricchita dagli strumenti della comunicazione non verbale, ad un contesto (scuola) fortemente strutturato sul testo scritto e dove l’interazione verbale è influenzata dalle determinanti della conoscenza scritta, a forme di comunicazione uomo/macchina, come nel caso della televisione e del computer, a loro volta differenti, ma combinabili in una commistione mutevole.

I problemi più grossi li pone attualmente la relazione tra il lingua agio della scuola e quello della televisione, proprio per il loro livello di diffusione in tutte le generazioni ma, ancor prima, per l’estrema diversità comunicativa ed organizzativa.

Non si può certamente dire che la scuola attuale continui ad essere territorio di dominio incontrastato della comunicazione scritta. Se lulle caratteristiche tipiche di questo medium si è venuta costruendo nei secoli l’organizzazione di una scuola che ha fatto del pensiero astratto accumulabile e gerarchizzato, e dell’apprendimento individualizzato il suo nucleo portante, si deve anche ricordare la commistione (e forse anche la correzione) che nell’aula scolastica si è venuta creando tra il medium stampa e l’interazione faccia a faccia tra insegnante e allievo e tra compagni. Si deve ancor più tener presente che la scuola attuale, in particolar modo la scuola dell’obbligo, si propone di far acquisire agli allievi una molteplicità di linguaggi, nella consapevolezza della ricchezza Di esperienze di cui il bambino è portatore e di cui deve farsi carico nella vita quotidiana. Nonostante questo, il linguaggio che si vuole dominante a scuola è pur sempre quello dell’astrazione, della decontestualizzazione, del procedere per concetti, del sapere riflesso che si interroga sulle regole della propria costruzione. Tutto ciò è ben lontano da quella Immediatezza, continua evocazione e riduzione al presente, ricontestualizzazione ed emotività, coinvolgimento passionale, tipici della televisione che, combinando codice iconico, grafico, musicale, sonoro, assorbe tutti i sensi dell’individuo, trascinandolo in una sorta di ampia comunità elettronica di riferimento. La televisione rappresenta, rispetto ai consolidati e dominanti schemi comunicativi, una rottura più forte che non il computer, il quale, almeno agli attuali livelli di evoluzione, potenzia il tipo di logica e di pensiero sequenziale proprio della stampa e privilegiato dalla scuola. Le “macchine per pensare” costituiscono in primo luogo un potente incentivo alla formalizzazione della conoscenza, ali esplicitazione di tutti i meccanismi conoscitivi, alla razionalizzazione e concettualizzazione del sapere in continuazione con quanto proposto, anche se scarsamente realizzato, dalla scuola.

Allo stadio di sviluppo attuale è sicuramente più elevata la distanza tra scuola e televisione che non tra scuola e calcolatore. Non è forse un caso che, mentre la televisione ha suscitato e continua a suscitare polemiche e opposizioni violente da parte di tutti gli educatori, in particolare di quelli professionisti, al computer si riconoscano in genere buone potenzialità formative e le resistenze abbiano a che fare più con le necessità di riconversione del ruolo docente che con le caratteristiche specifiche della tecnologia. E non è forse ancora un caso che l’introduzione del calcolatore riproduca problemi di povertà e di differenziazione analoghi a quelli prodotti dalla scuola (differenza per provenienza culturale e per sesso). Tuttavia già da oggi, e tanto più con il procedere dell’innovazione tecnologica, l’individuazione di linguaggi “naturali” anche per la programmazione dei calcolatori e l’applicazione del computer alla creazione artistica e musicale, siamo in presenza di commistioni tra i diversi media della comunicazione elettrico elettronica. Con riferimento specifico al campo formativo, utilizzi integrati delle diverse tecnologie sono esperienza reale anche se non ancora diffusa in maniera massiccia; a livello più banale, anche il più semplice videogioco giocato con un PC sullo schermo della TV domestica cambia la relazione dell’utente nei confronti della tecnologia televisiva. Un uso integrato di TV e computer, inoltre, può rompere il modello di organizzazione formativa a cui siamo abituati, e cioè può rendere inutile l’individuazione di una sede anche fisica, specializzata per la formazione, a favore di forme di “open learning”, di insegnamento a distanza, di autoapprendimento a domicilio .

Sia la televisione che il computer possono dar vita ad un eccesso di stimoli informativi, quando non ad una riduzione della comunicazione a informazione. Entrambe le tecnologie favoriscono un rapporto indiretto con la realtà esterna: il mondo circostante entra sempre più come conoscenza e meno come esperienza, facendo diminuire l’esigenza di un ricorso all’azione diretta. Per quest’ultimo aspetto, tuttavia, non è enorme la differenza neppure con il contesto scolastico e il medium stampa, essi stessi luoghi del dominio dell’astrazione sull’azione, della rappresentazione sull’esperienza materiale.

Un’ulteriore caratteristica comunicativa accomuna infine le due tecnologie elettrico elettroniche nella critica socio pedagogica: televisione e computer finirebbero per sfuggire al controllo dell’utente, eliminando (TV) o riducendo entro limiti ben definiti (calcolatore) le possibilità di retroazione e di intervento attivo del socializzando. A quanti avanzano questa critica si può ricordare che non sempre i luoghi della socializzazione interpersonale sono migliori da questo punto di vista. Non si vede quanto di veramente attivo da parte dell’utente ci sia, ad esempio, nel contesto di una lezione accademica, in cui di solito l’unico tramite d comunicazione è la voce del docente e la tecnologia è quella del gessetto o del pennarello.

5. Ambivalenze e rischi

Ambivalenze e rischi sono presenti in ogni modello e in ogni scenario proprio per le caratteristiche di non determinismo dell’azione umana La policentricità dei processi formativi, in primo luogo, può comportare sia problemi di eccessiva frammentazione e di iposocializzazione, sia rischi di totalitarismo e di ultrasocializzazione.

Un processo di diffusione non gerarchizzata e senza centro delle responsabilità formative, la frammentazione delle esperienze e degli ambiti di vita, l’incoerenza dei climi e degli stili comunicativi e conoscitivi, senza un’effettiva integrazione in un progetto unitario, si può tradurre per il soggetto in un iter di socializzazione che non dà come risultato la costruzione di una solida identità personale e sociale. La pluralità di contesti può ostacolare la definizione di un sé unitario e coerente, tanto più quando è esperienza anche dei primissimi anni di vita. Se da un lato si può rispondere a questa paura ricordando che ciò che entra in discussione è una concezione rigida del sé, costruito nei primi anni come bussola per tutta la vita e del resto disfunzionale in una società in cui la flessibilità è norma, rimane tuttavia ancora senza una risposta definitiva dal punto di vista empirico la definizione della soglia minima di attaccamento emotivo e temporale a contesti significativi, al di là della quale la flessibilità e la pluralizzazione di esperienze si trasformano in rottura delle caratteristiche soggettive della personalità e in impossibilità di costruzione di un progetto di vita. Chiaramente tale rischio è tanto più forte quanto più mancano concreti interventi di coordinamento e sostegno all’integrazione e tanto più l’espandersi delle offerte formative è frutto di spontanee logiche di mercato.

All’altro opposto, altrettanto evidenti sono i rischi di ultrasocializzazione, di eccesso di intenzionalità, definibilità, volontà di direzione e di controllo. Il modello del policentrismo può tradursi in un totalitarismo formativo che definisce dall’esterno del soggetto le finalità socializzanti non più di un solo contesto, ma di tutti i contesti nei quali è inserito, dando vita ad una rete tanto più ingabbiante quanto più è frutto di esplicite politiche di integrazione e di istituzionalizzazione. L’immaturità permanente è uno degli esiti possibili del passaggio alla socializzazione continua, se avviene per pura estensione di modelli educativi tradizionali.

Tra i rischi vanno poi annoverati:

– la produzione, accanto alle vecchie e persistenti emarginazioni scolastiche’ di nuove discriminazioni derivanti dalle diverse disponibilità di accesso alle occasioni formative extrascolastiche, alle tecnologie informatiche e telematiche;

– lo sviluppo di nuove povertà informative e culturali a fianco delle vecchie povertà economiche;

– il formarsi di nuovi squilibri territoriali in termini di quantità qualità dell’offerta formativa.

6. Per concludere

Il processo di despecializzazione e di deistituzionalizzazione di un compito così individualmente e socialmente rilevante come quello educativo può costituire una semplice fase di transizione ad una nuova e più ampia differenziazione e rispecializzazione. Anche se alcuni segni di questa ridefinizione sono già evidenziabili, l’innovazione culturale ha bisogno di un lento consolidamento per uscire positivamente dalla fase magnetica. Tuttavia alcune scelte vanno effettuate fin da oggi, a diversi livelli di approccio.

A livello teorico e metodologico, l’analisi sociologica dell’educazione deve interrogarsi sul proprio oggetto di indagine, scegliendo la riduzione più significativa per la realtà attuale: quello che è certo è che non può più essere solo una sociologia della scuola, anche se quest’area specialistica non va abbandonata e presenta molti buchi neri soprattutto a livello di microanalisi delle situazioni scolastiche.

A livello progettuale non ci si può non porre il problema della costruzione di relazioni fra i diversi poli del processo e quindi tra sedi, occasioni, attori della formazione: la preferenza per politiche locali, decentrate può rappresentare un’opzione di principio, ma può anche esprimere reali esigenze di razionalità, flessibilità ed efficienza dei processi e delle organizzazioni formative.

Al fondo, pur in presenza di tante ambivalenze teoriche, empiriche e progettuali, l’affermarsi di processi formativi policentrici presenta forti potenzialità positive che vanno salvaguardate di fronte a inevitabili tendenze di nuove specializzazioni gerarchizzanti e quindi di nuove forme di dominio. Il monopolio dell’una o dell’altra esperienza socializzante, il predominio di una sola forma di conoscenza e di sapere rappresentano rischi gravi in una società della flessibilità, ma ancor più in ordine alla costruzione di una persona integrale in cui le capacità di astrazione e di razionalità devono poter collegarsi e fondarsi sulla passione, sull’interesse, sull’affettività e sulla simpatia. Mantenere la distinzione tra le due sfere e coglierne non solo l’opposizione e la concorrenza, bensì anche gli elementi di unità e di complementarietà, può significare infine “restituire all’intelligenza le sue fonti vitali, concrete ed emotive” .

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